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Arte contemporanea cubana nel collezionismo italiano

Isolo17 Gallery padiglione 12, stand 12L. 

14-17 Ottobre: ArtVerona 2016

Nell’ambito di ArtVerona2016, Isolo17 Gallery propone una selezione di artisti cubani contemporanei che indagano la possibilità di nuovi orizzonti culturali oltre le vicende storiche e politiche del Paese latino-americano.

Isolo17 Gallery è una realtà giovane ma ormai consolidata nel panorama delle gallerie veronesi, distantisi a livello nazionale anche per l’attenzione alle nuove forme di creatività cubana. Una linea di ricerca volta a tracciare il panorama complesso delle diverse istanze culturali che attraversano e formano l’identità condivisa dell’Isola e che è avvalorata dal crescente interesse internazionale rivolto all’arte contemporanea cubana, come dimostrano le recenti mostre “(Art)Xiomas – CUBAAHORA” presso l’AMA di Washington, USA, “Cuba. Tatuare la storia” organizzata al PAC di Milano, “Cuba Libre” a Rostok in Germania e prossimamente a Marsiglia.

Le opere di Nadal Antelmo, Luis Israel Gonzalez, Yuri Limonte, Andy Llanez, Jorge Otero, Karlos Perez, Ramon Ramirez, affondano il proprio sguardo nel contesto sociale in cui gli artisti si sono formati, restituendo immagini dal forte carattere autobiografico dove l’identità cubana diventa possibilità di incontro, di dialogo, utopia percorribile e spazio di grande dignità umana.

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Nadal Antelmo: (Cuba, 1968), nascosto ore sotto il ponte della Calzada di Tirry a Matanzas, Cuba, immobile alla ricerca dello scatto giusto, quasi trattenendo il fiato per non farsi sorprendere dalle ragazzine che spia lì, da sotto la grata. «The Vouyeur» (2005) ci riporta alla mente a quando eravamo bambini, a quei primi impulsi di fronte alla scoperta dell’altro sesso, nascosti sotto un banco di scuola o visti attraverso il buco di una serratura, sfidando le regole del decoro, affascinati più dal gusto del proibito che da una sessualità ancora sconosciuta. Una mancanza di prouderie che è tipica della malizia infantile, così ludica e innocente, per nulla compromessa dal voyeurismo spinto del mondo adulto. L’artista affronta la sessualità evocando un sentimento del proibito, una fantasia dell’irraggiungibile. Il suo è un erotismo tutto mentale. L’atto in sé di spiare è quello che conta. Le ignare passanti, sono le pedine di un gioco fatto di attese, di controluce e del movimento ritmico dei loro passi. Un gioco in cui il dato reale si perde a favore di una fotografia astratta. Il ritmo incalzante del passaggio delle ragazze contrapposto alla staticità delle inferriate creano una visione accelerata, che segue l’andatura delle prede di Nadal. Niente di troppo esplicito, nessun rimando al volgare. Tutto si risolve nel gioco e nell’attesa.

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Karlos Pérez: (Cuba, 1990) è un buon esempio di come la pittura cubana contemporanea si sia creata il proprio spazio. Con un background in fotografia, video e installazione, i dipinti di Pérez confondono l’ordine dei discorsi tradizionali della ritrattistica. Le sue opere non sono ritratti semplici, esprimono infatti profondità psicologica e un carattere esistenziale. Simile al metodo di Lucien Freud nella ritrattistica teso ad evocare un particolare stato emotivo, Pérez si avvale di una tecnica di sfocatura e dell’utilizzo di chiazze che segnano la sua nota distintiva. I suoi dipinti, che sono tratti da fotografie, spesso ritraggono una figura isolata le cui caratteristiche sono oscurate e mostrano espressioni di malinconia. In altre opere, le figure sono rappresentate in un modo che ricorda vecchie fotografie ritrovate (l’artista stesso colleziona fotografie antiche che ritraggono cubani emigrati negli Stati Uniti), l’artista con la composizione e la manipolazione crea per lo spettatore una condizione di allontanamento e un senso di memoria. Nel complesso, l’effetto ottenuto dona al suo lavoro un particolare impatto emotivo e spirituale e allo stesso tempo una nota estetica cinematografica. Album di famiglia, immagini, ricordi che possono provocare processi artistici anni dopo di essere stati concepiti. Uno sguardo nella memoria fotografica di un tempo trascorso, attraverso la sua rilettura utilizzando il linguaggio pittorico come mezzo.

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Luis Israel Gonzàles Sosa: (Cuba, 1980) impila elementi architettonici tradizionali (case, tralicci ecc.) e li inserisce in vari dispositivi – altalene, corde tese, ruote, carrucole, giostre ecc. – che li rendono surrealisticamente inabitabili e assurdi (non nel senso dei rompicapi spaziali enigmatici di Escher), se non altro per i fuori scala reciproci delle parti; in tal modo si passa con immediatezza dall’ordinario all’onirico, a un paese circense dei balocchi, dove i principi costruttivi si ribaltano e un equilibrismo di natura giocosa può sospendere il pesante sul leggero, oppure sbalzarlo nel vuoto, ingigantire il piccolo e rimpicciolire il grande. L’artista, parlando del suo lavoro, spiega: “La prima cosa e la più importante é che mi sono lasciato trasportare dall’istinto, riscoprendo un materiale così primario come il carboncino e la matita. Dalla combinazione di questi due elementi, gioco e creo nuove immagini fantastiche. La semplicità del materiale e l’essenzialità della tecnica mi permettono di esprimere l’interesse per la testimonianza pittorica, come una sorta di esploratore ottocentesco, interessato a trascrivere nel suo diario i particolari più accattivanti del mondo che vede. I miei soggetti sono le forme architettoniche perché gli edifici, nel loro apparente mutismo e freddezza, stabiliscono sempre una relazione con chi vi abita. La chiara sfida delle leggi fisiche, mi permette di dare vita ad un luogo che è stato creato per contenerla. Gli antichi edifici e le loro forme architettoniche mi attraggono non solo per il fatto di essere testimoni di epoche passate, ma perché ci possono parlare del presente e del futuro. Cerco somiglianze tra la loro vita e quella delle persone ed il loro operato. Il nostro operato.”

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Yuri Limonte: (Cuba, 1974) l’intenzione di Limonte è quella di auscultare l’interno di una famiglia cubana. Tre linee argomentali s’intravedono nei suoi scatti in bianco e nero: la messa in discussione della fede, l’infanzia come fuga di una infausta realtà e la concezione meta-artistica. Trovarsi circondati dal legno, avviluppati da una tiepida e porosa materialità, significa sostare in una dimensione di quiete, essere accolti da un abbraccio silenzioso, ovattato. E’ qui che l’artista ci conduce, indicando al nostro sguardo il luogo di una deposizione: uno spazio fisico, avvolgente e tuttavia aperto alla visione. Sulla superficie delle pareti di un’abitazione cubana, i suoi scatti s’incidono intarsiando la fitta trama del legno, s’insinuano tra le rugosità delle sue venature incoraggiando a perdersi tra esse, a sostare per un momento sul fondo delle loro lievi profondità. L’essenzialità del quotidiano, il mosaico di una realtà casalinga in cui oggetti, volti e semplici gesti si compongono in geometrie inaspettate, si espongono pur non rinunciando ad una sorta di maliziosa segretezza, al mistero trattenuto della propria intimità.

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Ramon Ramirez: (Cuba, 1972) innalza costruzioni nello spazio, spesso evocando una sintassi antropomorfica, ovvero assimilando le costruzioni a marchingegni organici, a corpi giganteschi di cui cerca di svelare-sviluppare il funzionamento interiore, attraverso sezionamenti o sventramenti; come se la struttura interiore dovesse e potesse rivelare un segreto energetico nascosto, una vitalità ecologica intenzionalmente salvifica. Tutto il percorso di ricerca artistica di Ramon, affonda le sue radici nel campo dell’arte che tiene presente la condizione umana e a partire da essa, promuove un’esplorazione stilistica e di tematiche sensibili al progresso ecosostenibile della vita.

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Andy Llanes Bultó, (La Habana, 1983) rovescia la nostra prospettiva di visione. Da osservatori diventiamo all’improvviso osservati.  Un enorme volto di bambino ritratto in primissimo piano, che con la sua presenza quasi ci disturba. La visione ravvicinata e ingigantita, unita all’iperrealismo della pittura crea un effetto fortemente straniante. Nella serie “Carne y Huesos” i suoi soggetti ci stanno guardando e questo sguardo è per noi pesante e difficile da sostenere. Li osserviamo e la nostra attenzione si sposta ai dettagli di quei volti. I loro occhi, i nasi, le labbra carnose, la loro pelle. Si crea con il soggetto un’imbarazzante intimità, un sentimento di attrazione e di condivisine. Ad un tratto siamo caduti nella trappola di Llanes: egli ha ribaltato abilmente la nostra visione e ci ha portato ad interrogarci su noi stessi.

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Jorge Otero: (Cuba, 1982) l’immagine proposta da Otero è quella del guajiro cubano, reinterpretata dall’artista in una chiave glamour e patinata. Secondo una tradizione molto diffusa, il termine guajiro deriverebbe da una contrazione dell’americano war hero, espressione che i marines statunitensi attribuirono ai contadini locali, assoldati durante la guerra di indipendenza di Cuba contro la Spagna, nel 1895. Il loro apporto, infatti, si rivelò indispensabile per affrontare la giungla caraibica, superando l’evidente impreparazione dei nordamericani al territorio cubano. Va da sé che, entrati nell’immaginario collettivo, i guajiro abbiano ispirato gran parte degli artisti cubani, dai protagonisti della Vanguardia degli anni Trenta, fino agli artisti più recenti. Ma il contadino di Otero ha perso ogni riferimento alla terra e alla sua durezza. Il suo corpo è quello perfetto dei modelli delle riviste di moda. È un prodotto da vendere e riprodurre, anche nelle sue singole parti. E come ogni prodotto ha il suo logo in vista: la tramatura dalle pelle che riprende il motivo dell’intreccio di paglia tipico del sombrero (insieme al machete e alla guayabera, la camicia bianca tradizionale contraddistinta dalle pieghettature verticali, simbolo del guajiro). Otero ci offre così un’estetica del macho reinterpretata in chiave queer. Un uomo-oggetto in cui si trovano virilità e narcisismo. Ma in sé, l’uomo di Otero porta una riflessione più ampia, intrisa di malinconia: in questa società di massa, in fondo cosa resta delle antiche tradizioni, dell’orgoglio di un popolo, se non un brand da esportare come simbolo di un’autenticità ormai perduta?

A cura di Leonardo Regano


Giovanni Monzon
Isolo17 Gallery
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